venerdì 18 dicembre 2009
IL CONTRATTO A TERMINE NELLA GIURISPRUDENZA EUROPEA
Gruppo Europa Magistratura Democratica
Università degli Studi di Napoli Federico II°
Facoltà di Giurisprudenza.

1. Premessa

Prima di affrontare le questioni poste al vaglio della giurisprudenza delle Corti Europee, è opportuno fornire alcuni dati sulla diffusione dei contratti a termine.
Dalle rilevazioni statistiche si è registrato in Europa un andamento medio crescente che passa dal 13% del 2003 al 14,5% nel 2005 nell’utilizzo di tale tipologia contrattuale nell’ambito dei 25 paesi della UE.
Il paese che ha fatto maggiormente ricorso al contratto a termine è la Spagna che nel 2005 presentava una punta del 33,3 % rispetto all’occupazione complessiva.
Per quanto riguarda l’Italia le indicazioni provenienti dall’ISTAT mettono in evidenza che dal 2002, anno successivo all’entrata in vigore della l. 368/2001, vi è stata una costante crescita del lavoro a tempo determinato, con una accelerazione in aumento nel periodo 2005-2007 per cui nel 2006 risulta una crescita dal 12,3 al 13,1 su tutti i lavoratori dipendenti, per arrivare al 13,6, per il 3° trimestre del 2007.
E’ pure emerso che la metà dei nuovi posti di lavoro ( pari al 9,7% in più rispetto al 2005) sono costituiti da contratti a termine, e che quindi la composizione dell’occupazione dipendente negli ultimi 10 anni si sta rapidamente modificando, in quanto l’occupazione stabile perde progressivamente peso al ritmo di un punto percentuale a biennio.
Inoltre l’Istat rileva che la tendenza alla crescita dei rapporti di lavoro temporaneo riguardo soprattutto le donne ed i giovani sottolineando l’esistenza di aree ad alto rischio di precarietà: oltretutto la possibilità di passare da uno o più rapporti instabili ad un rapporto a tempo indeterminato è assai ridotta con la conseguenza di una generalizzata precarizzazione dei rapporti di lavoro.

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Ciò premesso, deve constatarsi che i problemi sociali e giuridici conseguenti alla ampia diffusione del contratto a termine sono sentiti in molti ordinamenti europei, visto che la Corte di Giustizia ha avuto modo in più occasioni di sottoporre al proprio vaglio le varie legislazioni che hanno recepito la direttiva 1999/70/CE.
La direttiva 1999/70/CE dà attuazione ed allega in modo integrale l’accordo quadro europeo sui contratti a tempo determinato (sottoscritto dall’ Unione delle Confederazioni delle Industrie della Comunità Europea e dalle Confederazione dei Sindacati Europei) e si compone di tre parti: il « Preambolo », le « Considerazioni generali » e la parte precettiva vera e propria contenente le varie clausole dell’accordo.
La tecnica legislativa utilizzata consente di enucleare con estrema chiarezza i principi chiave che il legislatore europeo ha inteso affermare per il progetto sociale comunitario e che sono sinteticamente affermati negli obiettivi a) e b) della direttiva, e più articolatamente enunciati:
1. nel terzo “considerando” del preambolo che richiama la Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori stabilendo fra l’altro che la realizzazione del mercato interno deve portare ad un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori della Comunità, e che tale processo dovrà avvenire mediante il riavvicinamento di tali condizioni che costituisca un progresso delle condizioni di lavoro, soprattutto per quanto riguarda le forme flessibili;
2. nel quattordicesimo “considerando” che richiama la necessità di stabilire principi generali e requisiti minimi per i contratti di lavoro a tempo determinato, con la finalità di migliorare la qualità del lavoro garantendo l’applicazione del principio di non discriminazione e di creare un quadro per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato;
3. nella seconda affermazione del “Preambolo” in cui le parti firmatarie dell’accordo riconoscono che i contratti a tempo indeterminato sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro e che i contratti a tempo determinato rispondono, in alcune circostanze, sia alle esigenze dei datori di lavoro sia a quelle dei lavoratori.

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La Corte di Giustizia si è finora pronunciata a seguito delle domande di pronunce pregiudiziali dei giudici tedeschi, dei giudici italiani, dei giudici greci, dei giudici spagnoli e, da ultimo, dei giudici irlandesi.

SENTENZA MANGOLD SULLA LEGISLAZIONE TEDESCA ( c. 144-04 del 22.11.2005)

La prima delle sentenze emesse ha riguardato la legislazione tedesca ed è intervenuta su importanti questioni interpretative relative all’attuazione della direttiva 1999-70 sul contratto a termine operata nella legge tedesca sul mercato del lavoro del 23 dicembre 2002 ( Corte di Giustizia 22 novembre 2005, c 144/04, caso Mangold ).
La Corte di Giustizia nella sentenza Mangold ha ritenuto non incompatibile con la direttiva n. 70 del 1999 ed, in particolare, con la clausola di non regresso, la normativa tedesca che “per motivi connessi con la necessità di promuovere l’occupazione e indipendentemente dall’applicazione dell’accordo quadro sul lavoro, attuato dalla medesima direttiva, ha abbassato l’età oltre la quale possono essere stipulati senza restrizioni contratti di lavoro a termine”.
Nel caso della legislazione tedesca, la riduzione del livello di tutela ( la possibilità di assumere a termine, senza alcuna causale giustificatrice, i lavoratori oltre i 60 anni di età ) non viola, secondo la Corte, la clausola di regresso in quanto è espressamente finalizzata ad incentivare l’occupazione.
Secondo l’interpretazione del giudice comunitario, la clausola di non regresso avrebbe sì efficacia giuridica vincolante per gli Stati membri, ma sarebbe consentita una diminuzione della protezione offerta dalla legge nazionale, quando tale riduzione venga fatta al di fuori della trasposizione della direttiva stessa e sia giustificata da un disegno riformatore motivato da nuove e reali esigenze di interesse generale.
La Corte di Giustizia afferma anche che la clausola di non regresso esplica la propria efficacia non solo nel momento in cui viene formalmente recepita la direttiva comunitaria che la contiene, ma anche successivamente, con riferimento a tutte le misure che completano o modificano le norme nazionali di trasposizione già adottate.
Tale principio appare di grande importanza in quanto vincola gli stati membri all’osservanza delle clausole della direttiva non soltanto nella legge immediatamente recettiva di essa ma anche nelle leggi che dovessero essere successivamente emanate nella materia.

SENTENZA ADENELER SULLA LEGISLAZIONE GRECA ( C 212/4 del 4.7.2006 )

Una pronuncia di grande interesse è stata emessa in relazione alla legislazione greca che non contiene alcuna previsione per l’illegittima reiterazione dei contratti a termine.
La normativa greca è stata infatti ritenuta incompatibile con la direttiva perché non solo non prevede alcuna delle misure prevista dalla clausola 5 per prevenire gli abusi derivanti da un indebita utilizzazione dei contratti a termine ma in quanto non contiene misure equivalenti che permettano, comunque, di evitare gli abusi.
Ha precisato che la clausola 5 n° 1 lett. a) dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato deve essere interpretata nel senso che essa osta all’utilizzazione di contratti di lavoro a tempo determinato successivi che sia giustificata dalal sola circostanza di essere prevista da una disposizione legislativa o regolamentare generale di uno stato membro. Al contrario la nozione di ragioni obiettive ai sensi della detta clausola esige che il ricorso a questo tipo particolare di rapporti di lavoro ., quale previsto dalal normativa nazionale sia giustificato dall’esistenza di altri elementi concreti relativi, in particolare , all’attività di cui trattasi e alle condizioni del suo esercizio.
La clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo indeterminato deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale , quale quella controversa nella causa principale , la quale stabilisce che soltanto i contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato non separati gli uni dagli altri da un lasso temporale superiore a 20 giorni lavorativi devono essere considerati “successivi” ai sensi della detta clausola.
Ancora, è stato affermato che l’accordo quadro osta all’applicazione di una normativa nazionale che vieta , in maniera assoluta, di trasformare in un solo rapporto a tempo indeterminato una successione di contratti a tempo determinato che, di fatto, hanno avuto il fine di soddisfare bisogni permanenti del datore di lavoro e che , pertanto , devono essere considerati abusivi.
La Corte di giustizia ha affermato, fra le altre cose, che “nell’ipotesi di tardiva attuazione, nell’ordinamento giuridico, dello stato membro interessato di una direttiva ed in mancanza di efficacia diretta delle disposizioni rilevanti di quest’ultima, i giudici nazionali devono, nella misura del possibile, interpretare il diritto interno, a partire dalla scadenza del termine di attuazione, alla luce del testo e della finalità della direttiva di cui trattasi al fine di raggiungere i risultati perseguiti da quest’ultima, privilegiando le interpretazioni delle disposizioni nazionali che sono maggiormente conformi a tali finalità, per giungere così ad una soluzione compatibile con le disposizioni di detta direttiva”.

CORTE DI GIUSTIZIA 13.9.2007 SULLA LEGISLAZIONE SPAGNOLA DEI PAESI BASCHI

La questione sollevata da un giudice della comunità autonoma spagnola dei Paesi Baschi riguarda l’interpretazione della clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, attuato dalla direttiva 1999/70 CE.
Il fatto: una lavoratrice ha prestato la sua attività per più di 12 anni come assistente amministrativa in vari ospedali del sistema sanitario pubblico, facendo parte, durante tale periodo, del personale di ruolo a tempo determinato. Successivamente venuta in possesso della qualità di dipendete statutaria a tempo indeterminato, ha chiesto che le fossero riconosciuti scatti salariali relativi ai periodi anteriori in cui aveva prestato servizio in qualità di dipendente statutario a tempo determinato. Tali scatti salariali venivano accordati dopo tre anni di servizio effettivo ma, ai sensi del decreto 231-2000 sulle condizioni lavorative del personale del Servicio Vasco de Salud e della l. 16.12.2003 n° 55 sullo Statuto quadro del personale statutario dei servizi sanitari il cui menzionato decreto da attuazione nella Comunità Autonoma Spagnola dei Paesi Baschi, gli scatti sono riservati al personale che possieda lo status di dipendente a tempo indeterminato.
La lavoratrice non avendo ricevuto risposta ha adito il giudice del lavoro .
Il Servizio Sanitario Nazionale ha rilevato che la ricorrente non aveva diritto agli scatti salariali poiché alla data della domanda non aveva lo status di dipendente a tempo indeterminato.
L’Avvocato generale ha concluso, in modo invero discutibile, nel senso che il principio di non discriminazione «per quanto riguarda le condizioni di impiego» dei lavoratori a tempo determinato rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato « esclude dal suo ambito di applicazione le condizioni economiche e qualsiasi tipo di retribuzione » (punti 22, 25 e 27 ).
La Corte di Giustizia ha mostrato di fare una grande passo avanti sull’applicazione del principio di non discriminazione, dichiarando – con sentenza del 13.settembre 2007- che “ la nozione di “condizioni di impiego” di cui alla clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18.3.1999, contenuto in allegato alla direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, 1999-70-CE, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato deve essere interpretata nel senso che essa può servire da base ad una pretesa come quella in esame nella causa principale, che mira all’attribuzione, ad un lavoratore a tempo determinato, di scatti di anzianità che l’ordinamento nazionale riserva ai soli lavoratori a tempo indeterminato”, e che la medesima clausola “deve essere interpretata nel senso che essa osta all’introduzione di una disparità di trattamento fra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato, giustificata dalla mera circostanza che essa sia prevista da una disposizione legislativa e regolamentare di uno stato membro ovvero da un contratto collettivo concluso tra i rappresentanti sindacali del personale ed il datore di lavoro interessato”.
La Corte ha applicato, nel caso in questione, il principio di non discriminazione che proprio in materia retributiva - ed in particolare in relazione alle retribuzioni delle lavoratrici donne – fa registrare ancora moltissimi punti di crisi nelle varie legislazioni nazionali.
Il principio di non discriminazione contenuto nella clausola 4 della direttiva comunitaria viene ritenuto dalla Corte di Giustizia un caposaldo indiscutibile ed autosufficiente in quanto trasfonde nell’ordinamento europeo il contenuto del principio di uguaglianza.

SENTENZA DEL 15.4.2008 SULLA LEGISLAZIONE IRLANDESE ( CASO IMPACT) della Grande Sezione della Corte di Giustizia

Il caso IMPACT è certamente la pronuncia di maggior interesse , fra quelle sinora esaminate, in quanto oltre ad utilizzare una tecnica per relationem sempre più ricca, afferma e ribadisce alcuni principi di ampia apertura, e consente di ritenere assodata la “tutela multilevel”.
Essa contiene l’implicita affermazione che il giudice nazionale deve sentirsi un giudice europeo, che deve informato della giurisprudenza della Corte di Giustizia sulla legislazione di tutti gli stati membri al fine di attuare i principi contenuti nel Trattato CE.
Il fatto:
La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione delle clausole 4 e 5 dell’accordo quadro nonché sull’estensione dell’autonomia procedurale degli stati membri e sulla portata dell’obbligo di interpretazione conforme gravante sui giudici di questi ultimi.
Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra il sinacato irlandese IMPACT che rappresenta 91 dipendenti pubblici irlandesi ed i Ministeri presso cui questi ultimi sono occupati in qualità di dipendenti non di ruolo riguardo, da un lato, alle condizioni di retribuzione e pensione applicati ai medesimi in ragione del loro statuto di lavoratori a tempo determinato e, dall’altro, alle condizioni di rinnovo di tali contratti a tempo determinato da parte di uno di tali ministeri.
L’Irlanda ha recepito la direttiva comunitaria con legge del 2003.
Deve premettersi che nella normativa irlandese relativa al Pubblico Impiego i dipendenti non di ruolo sono oggetto di un regime distinto da quello applicabile ai dipendenti di ruolo che è ben più vantaggioso.
Nel periodo immediatamente precedente all’entrata in vigore della l. 2003 uno dei Ministeri ha rinnovato i contratti ad alcuni ricorrenti per una durata massima di otto anni.
Tra i ricorrenti, alcuni che avevano meno di tre anni si servizio rivendicavano oltre ad uguali condizioni di impiego, un contratto a tempo indeterminato.
Le questioni pregiudiziali più rilevanti poste dalla Labour Court sono :
se la clausola 4 ( principio di non discriminazione rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato ) dell’accordo quadro sia incondizionata e sufficientemente precisa così da poter essere fatta valere dai singoli dinanzi ai loro giudici nazionali;
stesso quesito per la clausola 5 ( principio di prevenzione dagli abusi ) ;
se la clausola 5 impedisca ad uno stato membro che agisce nella sua veste di datore di lavoro, di rinnovare un contratto di lavoro a tempo determinato per una durata massima di otto anni nel periodo successivo alla data in cui la direttiva debba essere trasposta e prima dell’adozione della normativa di attuazione qualora in precedenza il rinnovo sia stato effettuato per periodi ben più brevi quando tale rinnovo abbia l’effetto di eludere l’applicaizone del principio della clausola 5 ;
se , in caso di soluzione negativa i giudici siano tenuti ai sensi di qualche disposizione del diritto comunitario ad interpretare il diritto nazionale in modo tale da far retroagire gli effetti alla data in cui la direttiva stessa doveva essere recepita;
in caso di soluzione positiva della 1 e 4 questione se le condizioni di impiego cui si riferisce la clausola 4 comprendano le condizioni di un contratto di lavoro relative a retribuzioni e pensioni.
La Corte di Giustizia ha ribadito che:
il contenuto della clausola 4 appariva incondizionato e sufficientemente preciso per poter essere invocato da un singolo dinanzi ad un giudice nazionale;
ha negato che il contenuto della clausola 5 fosse sufficientemente preciso per attuare la protezione minima prevista dall’accordo quadro;
ha affermato che in virtù degli artt. 10 e 249 trattato CE e della direttiva del 99 un’autorità di uno stato membro ( con ciò riferendosi ad un datore di lavoro ) datore di lavoro non era autorizzato, comunque, ad adottare misure contrarie all’obiettivo perseguito dalla direttiva per la prevenzione dell’abuso di contratto e cioè il rinnovo per un periodo inabitualmente lungo nel corso del periodo compreso fra il termine fissato per il recepimento e quello della entrata in vigore della legge nazionale ;
ha ricompreso, richiamando l’art. 136 trattato CE che nella determinazione sia degli elementi costitutivi della retribuzione sia del livello di tali elementi debba applicarsi ai lavoratori a tempo determinato il principio di non discriminazione consacrato dalla clausola 4 dell’accordo quadro: ciò attraverso una interpretazione adeguatrice che ha aggirato l’espressa esclusione prevista dall’art. 137 Trattato, riaffermando la valenza superiore del principio di non discriminazione e la conseguente impossibilità di escludere, dalle pattuizioni contrattuali, un adeguato livello retributivo. Ha ribadito, quindi, quanto recentemente affermato dalla sentenza 13.9.2007 sulla legislazione spagnola sopra richiamata
L’importanza della sentenza consiste nella riaffermazione della esigenza inderogabile di attuare concretamente i principi contenuti nel trattato CE e nell’incoraggiare il giudice nazionale a non assumere un atteggiamento recessivo: il richiamo all’applicazione diretta dell’art. 136 del Trattato CE fa capire che la promozione dell’occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro che consente la parificazione dei lavoratori nel progresso, una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazionale elevato e duraturo, la lotta all’emarginazione non sono concetti astratti , destinati a rimanere sulla carta, ma aspirazioni da realizzare anche attraverso l’opera attenta della giurisdizione.


LE SENTENZE DELLE CORTI NAZIONALI E DELLA CORTE DI GIUSTIZIA SULLA 368/2001

Deve premettersi che la questione preliminare, posta in evidenza dalla dottrina subito dopo l’emanazione del d.lgs. n. 368/2001, è stata quella relativa al metodo seguito per il recepimento della direttiva 1999/70/CE.
Il D.lgs. 6 settembre 2001 n. 368, infatti, è stato emanato in esecuzione della legge delega 29 dicembre 2000 n. 422 che, all’ art. 2 lett. f ), non dettava autonomi principi e criteri direttivi ma autorizzava il governo ad emanare le “norme occorrenti” perché la disciplina fosse pienamente conforme alle prescrizioni della direttiva.
Una parte della dottrina ha sostenuto il contrasto del decreto legislativo con l’art. 76 Cost. perché vi sarebbe stato un eccesso di delega in quanto la parte propriamente precettiva della direttiva, e che doveva essere oggetto del recepimento, era solo quella contenente specifiche disposizioni relativamente al principio di non discriminazione rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato comparabili e alle misure di prevenzione dell’abuso nella successione di contratti a termine.
Il legislatore delegato sarebbe dunque andato oltre quanto previsto dalla legge delega e avrebbe colto l’occasione per apportare modifiche radicali alla normativa.
Inoltre si è sostenuto che queste modifiche riducono, in alcuni casi, il livello generale di tutela offerto ai lavoratori, in contrasto dunque con la c.d. clausola di non regresso (Art. 8 ), clausola secondo la quale la trasposizione della direttiva non costituisce motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito coperto dall’accordo stesso.
In effetti il Dlgvo n. 368/2001 nella formulazione antecedente alla l. 247/2008( “Nuova disciplina del Welfare” che, tra le altre cose, ha reintrodotto espressamente il principio che “ il contratto di lavoro subordinato è stipulato, di regola, a tempo indeterminato”) ha costituito senza dubbio, rispetto al precedente sistema, una grave momento di rottura: la l. 230 del 1962 prevedeva infatti il metodo della tassatività delle ipotesi previste dalla legge o dalla contrattazione collettiva in cui era consentito apporre un termine al contratto di lavoro mentre la normativa del 2001 all’art. 1 disponeva soltanto che “è consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo,organizzativo o sostitutivo” che devono peraltro essere specificate con atto scritto).
Non v’è dubbio, quindi, che la l. 386/2001 ha introdotto modifiche peggiorative rispetto alla previgente disciplina e disposizioni diverse ed ulteriori rispetto a quelle occorrenti per dare attuazione alla direttiva, secondo la previsione della delega, anche perché l’interpretazione sistematica dell’accordo impone di tenere in considerazione tutti gli elementi che lo compongono e quindi anche i principi contenuti nel Preambolo e nelle Disposizioni generali, integralmente trasfusi nella direttiva.
La portata della c.d. “clausola generale” ha costituito, al riguardo, la principale questione interpretativa dibattuta in dottrina e sulla quale i giudici del lavoro si sono confrontati, perché dalla soluzione data a tale questione discende il mantenimento della centralità del contratto di lavoro a tempo indeterminato come strumento “normale” di impiego dei lavoratori oppure la alternativa, senza limiti sostanziali, tra contratto a temine o indeterminato come modalità di assunzione.
L’indubbio ampliamento dell’autonomia privata individuale che discendeva dalla formulazione dell’art. 1 ha indotto ad interrogarsi se per la legittimazione del termine fosse necessaria l’inevitabilità dello stesso, ossia occorresse che l’occasione di lavoro fosse solo temporanea e non permanente oppure se fosse sufficiente una qualsiasi ragione oggettiva, non illecita e non arbitraria, che rendesse preferibile in concreto il lavoro a termine nel rispetto del limite quantitativo ancora rimesso alla contrattazione collettiva.
Deve infatti rilevarsi che le “maglie larghe” introdotte dal dlvo 368-2001 hanno consentito un utilizzo indiscriminato del contratto a termine che, molto spesso, passato al vaglio dell’autorità giudiziaria, ha sortito pronunce affermative della lesione dei principi comunitari. Ed uno dei settori dove l’abuso si è maggiormente verificato è la P.A.
Sul punto il Tribunale di Genova ha posto alla Corte di Giustizia ( con ordinanza 21.1.2004) due questioni pregiudiziali risolte con le sentenze 7 settembre 2006, c. 180/04, Vassallo, e 7 settembre 2006 c. 53/04, Marrosu e Sardino di poco successive alla pronuncia sul caso Adeneler sopra richiamato.
Entrambe le ordinanze di rimessione riguardano contratti a termine stipulati nel settore pubblico e contengono importanti precisazioni.
La sentenza della Corte di Giustizia 7 settembre 2006 (casi Marrosu e Sardino e caso Vassallo) si è pronunciata sulle sanzioni per l’abuso di successione di contratti a termine nell’impiego alle dipendenze della P.A.
La legge italiana, pur avendo escluso la trasformazione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato, raggiungendosi così lo scopo fondamentale di evitare che attraverso assunzioni precarie si potessero incardinare rapporti di lavoro stabili senza il rispetto delle procedure selettive e soprattutto senza una programmazione del fabbisogno del personale, prevede il “diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di norme imperative” oltre all’ulteriore garanzia di effettività derivante dall’obbligo di recupero a carico del dirigente responsabile per dolo o colpa grave del risarcimento pagato dalla P. A. (art. 36, comma 2 del T.U. 165/2001)
Il legislatore, da ultimo, per cercare di porre rimedio ad una sorta di “precariato stabile” ha modificato l’art 36 del D.lgs. n. 165/2001 con il d.l. 10 gennaio 2006, convertito, con modificazioni, dalla l. 9 marzo 2006 n. 80. Sono stati introdotti vincoli causali e procedimentali molto rigorosi, volti a scoraggiare il ricorso al contratto a tempo determinato.
L’attivazione delle forme contrattuali flessibili è consentita «solo per esigenze temporanee ed eccezionali», «previo esperimento di procedure inerenti assegnazione di personale anche temporanea nonché previa la possibilità di…contratti di somministrazione ovvero di esternalizzazione e appalto di servizi»; è inoltre necessaria una autorizzazione con «decreto …in caso di procedure di reclutamento a tempo determinato per contingenti superiori alle cinque unità, compresi i contratti di formazione e lavoro».
La mini riforma della flessibilità nel pubblico impiego non ha però riguardato le sanzioni per l’inosservanza delle regole.
Il dubbio interpretativo, che ha portato il giudice italiano (Tribunale di Genova, ordinanza 21 gennaio 2004) a sollecitare l’intervento della Corte di Giustizia riguarda la compatibilità della disposizione di cui all’art. 36 del T.U. del 2001 con i principi dettati dalla direttiva 1999/ 70/CE, così come attuati dal D. lgs n. 368/2001, e in particolare con l’art. 5 che prevede come misura sanzionatoria dell’abuso del contratto a termine la trasformazione in contratto a tempo indeterminato.
Di ciò peraltro vi parlerà il collega Basilico, con interpretazione autentica dei propri provvedimenti ed io pertanto tralascio l’approfondimento del tema.

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Voglio, invece, soffermarmi sulle note ordinanze di rimessione del Tribunale di Rossano alla Corte Costituzionale, l’ultima delle quali è stata accolta con la recente sentenza 44/2008.
Con un primo provvedimento di rimessione del 17.5.2004 il Tribunale di Rossano ha dubitato della legittimità costituzionale dell’art. 10 co 9 e 10 della l. 368/2001 con riferimento alla previsione che assoggetta il diritto di precedenza dei lavoratori assunti a termine per lo svolgimento di attività stagionali ovvero per far fronte alle c.d.”punte stagionali di attività”, nella riassunzione presso la stessa azienda con la medesima qualifica a due condizioni prima inesistenti: la previsione di tale diritto da parte della contrattazione collettiva nazionale ed il mancato decorso di un anno dalla cessazione del precedente rapporto.
La nuova disciplina avrebbe, secondo il Trib. di Rossano, con ciò disposto in espresso contrasto con la legge delega perché avrebbe violato la clausola di non regresso ( assunta come criterio direttivo della delega ), intesa come un divieto al legislatore nazionale di derogare in pejus alla normativa prima esistente ( art. 23, comma 2, l. 28 febbraio 1987 n. 56 ).
La Corte Costituzionale chiamata a valutare, ex art. 76 Cost., la legittimità costituzionale dell’art. 10, commi 9 e10 del d.lgs. n. 368/2001, per la supposta violazione, da parte del legislatore delegato, del divieto di regresso delle tutele nazionali, ha, con l’ordinanza del 26 giugno 2006 n. 252, restituito gli atti al Tribunale rimettente, ritenendo che il giudice di merito dovesse decidere tenendo in considerazione le statuizioni contenute nella sentenza della Corte di Giustizia 22 novembre 2005, c. 144/04, Mangold sopra riportata.
La Corte Costituzionale dunque, richiamando la giurisprudenza comunitaria ha ribadito il principio per cui una riduzione di tutele sino al minimo imposto dalla direttiva è legittima, purché sia giustificata da finalità diverse dal mero proposito di attuare la direttiva.
Con ordinanza del 16 gennaio 2007 il Tribunale di Rossano ha nuovamente proposto alla Corte Costituzionale la medesima questione, ma sotto il profilo dell’assenza di delega con richiamo dell’art. 77 I° co. Cost.
Prendendo le mosse dagli argomenti dell’ordinanza n. 252/2006 che aveva rifiutato espressamente di pronunciarsi su tale punto in quanto esso non era contenuto fra i motivi dell’ordinanza di rimessione, il nuovo provvedimento del Tribunale di Rossano ha prospettato che l’art. 10 l. 368/2001 era stato emanato in assenza di delega sia in riferimento all’ambito di operatività della direttiva e quindi, della legge comunitaria, sia in riferimento alla violazione “indiretta” della stessa clausola di non regresso , nel senso che, circoscritto l’ambito della delega e limitato rigorosamente l’oggetto del recepimento della direttiva , il legislatore delegato aveva trovato l’occasione per peggiorare la tutela dei lavoratori a termine abrogando il diritto di precedenza ed intervenendo così con una normativa che si poneva completamente al di fuori della delega.
La Corte Costituzionale ( sent. 44/2008 ) ha quindi ritenuto costituzionalmente illegittimi , per violazione dell’art. 77, I° co Cost, per assenza di delega, l’art. 10 co. 9 e 10 nonché l’art. 11 co. 1 e 2 del Dlvo 368/2001 nella parte in cui abrogano l’art. 23 co 2 della l. 56/87 che regolava l’esercizio del diritto di precedenza dei lavoratori stagionali alla riassunzione presso la medesima azienda e con la medesima qualifica. La Corte ritiene che le norme censurate e dichiarate illegittime si collochino al di fuori della direttiva comunitaria e anche al di fuori della delega conferita al governo dalla legge comunitaria 422/2000 che, a differenza di altre ipotesi, non ha dettato specifici criteri o principi capaci di ampliare lo spazio di intervento del legislatore delegato.
Il ragionamento della Corte richiama quello già espresso nei principi fissati nella sentenza 41/2000 con cui la Corte Costituzionale, dopo la direttiva del ‘99 ma prima dell’emanazione della 368/2001 aveva affermato che :
1. l’accordo quadro recepito dalla Direttiva comunitaria richiede che il termine apposto al contratto di lavoro fosse determinato da ragioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data , il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico;
2. gli stati membri entro il termine per il recepimento della direttiva erano obbligati ad adottare idonee misure volte ad evitare l’abuso del contratto a termine individuando le ragioni obiettive che giustifichino la sua rinnovazione, la durata dei contratti successivi ed il numero dei rinnovi possibili;
3. gli stati membri debbono introdurre nei propri ordinamenti misure idonee a prevenire abusi in tema di contratto di lavoro a tempo determinato solo “in assenza di “norme equivalenti”;
4. la l. 230/62 dava sufficienti garanzie contenendo misure finalizzate ad evitare ogni elusione degli obblighi nascenti da un contratto a termine;
5. forse l’ordinamento italiano risultava anticipatamente conformato ai principi della direttiva e, quindi, in pendenza del termine per il recepimento la sopravveniente formazione interna non poteva estrinsecarsi con i principi della direttiva.
Alla luce di ciò bisogna chiedersi se la sentenza 44/2008 non si traduca in un espresso auspicio alla riviviscenza della l. 230/1962.

Il problema della conversione

A tal proposito deve sottolinearsi come il D. Dlvo 368/2001, avendo abrogato definitivamente la l. 230 del ‘62 e con essa il principio generale di conversione ( mantenendolo per l’appunto soltanto nel caso di reiterazione del contratto ), ponga dei gravi problemi di tutela effettiva del lavoratore nel caso di illegittima stipula di un solo contratto a termine.
La giurisprudenza di merito è alquanto oscillante sul punto e non sono poche le pronunce che si limitano alla dichiarazione di nullità del contratto senza alcuna conseguenza economica in favore del lavoratore.
La giurisprudenza di legittimità, si è pronunciata sul punto con la recentissima Corte di Cassazione 12985/2008 del 21.5.2008 con la quale è stata affermata l’applicabilità del principio della conversione del contratto anche in relazione alle ipotesi alle quali deve essere applicata la 368/2001 nella formulazione antecedente alla l. 247/07, nella quale era stato eliminato espressamente il riferimento sia alla regola della durata indeterminata del contratto di lavoro, sia la sanzione della automatica conversione del contratto a tempo determinato nullo in contratto a tempo indeterminato.
La pronuncia – ( relativa ad una controversia su il contratto a termine stipulato da alcuni lavoratori con Poste Italiane Spa ) appare tanto più significativa, nel contesto di questo convegno, in quanto il ragionamento seguito dai colleghi di legittimità ha preso le mosse proprio dai principi contenuti nella direttiva europea e nelle pronunce della Corte di Giustizia che ho sinora richiamato.
E’ stato infatti affermato che “pur in assenza di una norma che sanzioni espressamente la mancanza di ragioni giustificatrici o la nullità della clausola che le individui, legittimamente e coerentemente la Corte di merito ha ricavato la sanzione dal “sistema” nel suo complesso e dai principi generali, in tal modo non ricorrendo ad una analogia legis e neppure sostituendosi al legislatore o al giudice delle leggi, bensì, semplicemente, interpretando la norma nel quadro delineato dalla direttiva comunitaria ( della quale è attuazione ) e nel sistema generale ( dei profili sanzionatori nel rapporto di lavoro subordinato ) tracciato dalla stessa Corte Costituzionale”; e, dopo un completo exursus sulla giurisprudenza europea e sui principi in essa affermati la Corte ha aggiunto che se la ratio della previsione della forma scritta ad substantiam per il contratto a termine è quella di garantire la certezza della natura del contrato, responsabilizzando il consenso del lavoratore, e di consentire al giudice il controllo effettivo del contenuto del contratto stesso, verificando, attraverso l’applicazione della clausola generale , la conformità fra gli interessi programmati dalle parti e gli interessi riconosciuti meritevoli di tutela attraverso la regolamentazione del contratto medesimo, ne consegue logicamente che, nella sostanza, le sanzioni non possono non essere accomunate dalla detta ratio, tanto nel caso in cui il termine non risulti da atto scritto, quanto nel caso in cui manchi l’indicazione di una sufficiente ragione giustificativa.
E’ stato quindi superato l’argomento “ubi lex voluit dixit” ritenendo prioritario il principio generale di conservazione del rapporto contrattuale.
Oltre al contenuto chiarificatore delle statuizioni in essa contenute, la sentenza appare di particolare pregio in quanto ha usato nella motivazione la tecnica del ragionamento per principi, caldeggiato dalla migliore dottrina ( Rodotà) al fine di raggiungere un risultato interpretativo costituzionalmente orientato .
Alla luce di tali principi, la legge sul welfare 247/2007 ( co 39-43 ) appare, un frutto attesissimo, ancorché incompleto, della giurisprudenza comunitaria e sembra, almeno da una prima lettura, che appresti una migliore tutela rispetto alla deriva provocata dalla 368/2001, legge che oltre ad aver accentuato la formazione di quel precariato stabile di cui ho parlato all’inizio, ha contribuito a creare un pauroso aumento di contenzioso che condiziona tuttora la gestione del processo del lavoro.
Mai come in questo caso il monito che proviene dalla giurisprudenza europea sembra utile al fine di obbligare gli stati membri ad emanare regole chiare e non piegate solo alle leggi di mercato.

Cons. Dott. Antonella Di Florio

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